Nell’aprile del 2015 questa foto fa il giro del mondo. Ritratto vi è un giovane uomo che suona il pianoforte in mezzo alle macerie di uno dei quartieri più bombardati di Damasco. Siamo a Yarmouk e questo è Aeham Ahmad, la voce narrante che ci accompagnerà nel libro che presentiamo alla scoperta della sua storia e allo stesso tempo delle vicende siriane.
L’incipit suona così:
«Le immagini non raccontano mai l’inizio delle storie. E su quello che viene dopo tacciono»
Le foto danno una rappresentazione statica e istantanea della realtà, non mostrano il complesso svolgersi delle vicende umane. Non riusciamo a vedere, pur nelle sue problematiche, lo splendore della Siria prima della catastrofe. Non sentiamo l’odore della bevanda al gusto di cannella quando tè e caffè sono ormai merce rara o il sapore della cera depilatoria usata come dolcificante. Non immaginiamo i cuori che battono impetuosamente per la paura durante la traversata del Mediterraneo.
Probabilmente neanche le parole sono esaustive, ma Ahmad prova a dipingere con semplicità il quadro della sua vita, fatta di miseria e bombe, ma anche di musica, amicizia e coraggio. E ce ne vuole parecchio per decidere ogni giorno di trasportare il pianoforte con un carretto e suonare per ore tra le macerie. Con un coro di bambini che non sanno più che fare, sui testi di mariti rimasti vedovi, con la paura delle bombe, anche quando non è rimasto quasi più nessuno.
Il libro ha un’andatura lenta, ma è quella che serve per seguire la storia sin dal principio, quando i ricordi del protagonista sono solo accennati o non ci sono affatto.
Yarmouk sorge a metà degli anni Cinquanta, dopo la creazione dello stato d’Israele, quando il governo siriano decide di sistemare a sud di Damasco i diecimila rifugiati palestinesi alloggiati fino a quel momento in campi provvisori. È qui che il nonno di Ahmad costruisce la casa in cui lui stesso vivrà.
L’infanzia scorre felice come traspare dal suo racconto.
«Ogni volta che penso alla mia infanzia c’è sempre il sole. Non ricordo un solo giorno di pioggia. Ricordo il profumo del gelsomino, l’odore della saponetta all’olio d’oliva con cui mi lavavo la faccia ogni mattino»
Leggiamo di una madre attenta e di un padre complice, diverso dagli altri, che suona il violino e risponde alle mille domande sulla religione, sul mondo arabo, sul significato di essere rifugiati. Un padre che per più di sei anni attraversa la città per accompagnarlo alla scuola di musica statale.
E poi l’adolescenza che porta con sé le sue bravate, le fughe dalla scuola per rifugiarsi a suonare nel nuovo negozio di strumenti musicali del padre. Non solo Chopin e Mozart o la musica tradizionale araba, ma anche Ziad Rahbani, il pop-jazz, o composizioni moderne e arrangiamenti occidentali. Un periodo di crescita personale ed economica. Ogni mese il negozio produceva più di cinquanta liuti ed era letteralmente preso d’assalto dagli allievi che arrivavano per prendere lezioni. Gli affari andavano a gonfie vele.
Queste pagine riportano alla mente i racconti dei nati dopo la Seconda Guerra Mondiale. La vita era dura, ma i sogni potevano ancora essere realizzati. Bastava impegnarsi. E Ahmad ce la metteva tutta.
All’improvviso nel 2011 scoppia la guerra, o la “rivoluzione”, come si precisa in una dei capitoli del libro. Yarmouk si trova stretta in una morsa letale. A fronteggiarsi troviamo l’esercito governativo siriano di Assad da una parte e l’Esercito Siriano Libero dall’altra, ognuno con gli alleati più svariati, dalle milizie plaestinesi al Fronte Al-Nusra fino ad arrivare all’Isis.
Molti decidono di andarsene, ma il nostro giovane pianista non si fa paralizzare dalla paura. L’entusiasmo e la voglia di progettare non lo abbandonano. Ci racconta del suo matrimonio, dell’amore per Tahani e della nascita del suo primo figlio. La vita continua anche se le privazioni della guerra si fanno sempre più insostenibili, finchè Yarmouk viene sigillata. Si cominciano a vedere i primi morti per inedia. Non bastano più i falafel di ceci improvvisati, il pianoforte viene incendiato e piccoli innocenti perdono la vita.
Qui si apre la terza parte del libro, quella della fuga. Quel “dopo” sul quale la fotografia tace. La lentezza iniziale si trasforma in un vortice incalzante. Parteggiamo tutti per la salvezza di Ahmad e della sua famiglia, come se quelle cose non fossero già accadute. La realtà si trasforma in romanzo e viceversa.
Nonostante la durezza delle immagini descritte, non è pietà quello che il libro vuole suscitare. È piuttosto una richiesta di comprensione. Si percepisce la volontà di opporsi ai falsi miti, alle semplificazioni e ai pregiudizi. Oggigiorno, quando pensiamo alla guerra, la prima cosa che le associamo è la povertà, o meglio, la personificazione della povertà nel migrante o nel rifugiato.
« Quando scappi dalla fame e dalle bombe abbandoni il tuo mondo. E ti trasformi in uno di quei loschi figuri che hanno sempre vissuto nella miseria […]»
Ma non è sempre stato così. A volte la narrazione della realtà che ci diamo e che i media ci restituiscono racconta solo una parte della verità. Nel libro è come se Ahmad gridasse a gran voce: sono come voi! La guerra e la miseria mi hanno trovato, ma sono sempre stato come voi.
Il pianista di Yarmouk, pubblicato dall’editore La Nave di Teseo, racconta dall’interno la parabola discendente verso la guerra con una semplicità e naturalezza tali da farci pensare che potrebbe capitare a chiunque. Molte contraddizioni sono state taciute e lo scenario retrostante è davvero complesso, tuttavia non possiamo tacere il valore di una testimonianza libera rispetto a ciò che sta succedendo da più di sette anni nel vicino Medio Oriente.
D’altro canto, possiamo anche leggere la guerra solamente come l’epilogo di una storia di vita e di resistenza. A Yarmouk, come nella nuova vita in Germania, la musica continua ad essere una richiesta di libertà, a dare speranza ad un uomo che ne ha passate tante.
Buona lettura!