Per molti secoli alcune discipline artistiche – la pittura e, ancor più, la scultura e l’architettura – sono state appannaggio quasi esclusivo degli uomini. A fronte di una storia dell’arte punteggiata da astri di sesso maschile, si possono annoverare pochissimi nomi di donna, e anche le poche che si distinsero non ebbero vita facile. Si pensi, solo per far un esempio, alle tristissime vicissitudini che segnarono l’esistenza della scultrice Camille Claudel, allieva di Auguste Rodin, la quale finì i suoi giorni in un ospedale psichiatrico dimenticata da tutti nonostante il suo straordinario talento (la storia di questa artista è raccontata in una bellissima biografia di Odyle Ayral-Clause disponibile su MLOL).
Il destino delle donne artiste, quindi, è stato a lungo segnato da un’innegabile difficoltà a veder riconosciuto il proprio talento.
Suscita di conseguenza un certo stupore la luminosa carriera intrapresa da Artemisia Gentileschi, che si può senza dubbio considerare la pittrice più famosa di ogni tempo. A lei sono stati dedicati romanzi, saggi, mostre, e gli studi storici e critici danno corpo ormai a una nutrita bibliografia. Figlia del pittore caravaggesco Orazio Gentileschi, Artemisia fu da lui avviata all’arte della pittura: mostrò fin da bambina un’incredibile predisposizione per l’arte dei pennelli, tanto che a 17 anni fu già in grado di portare a termine uno dei suoi capolavori più celebri, la tela che raffigura Susanna e i vecchioni.
Il successo della giovane Artemisia, tuttavia, è in gran parte dovuto a una scabrosa vicenda processuale che la vide protagonista e che suscitò grande scalpore. Nel febbraio 1612 Orazio Gentileschi, con una supplica al pontefice Paolo V, chiede di mettere sotto processo il pittore e collega Agostino Tassi per aver un anno prima “forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più e più volte la figlia” senza poi riscattare la virtù della giovane con il promesso matrimonio riparatore. Il processo durò dieci mesi e rappresenta un formidabile caso giudiziario perché sono giunti fino a noi tutti gli atti e le deposizioni ufficiali, compresa la drammatica testimonianza di Artemisia e il racconto della tortura da lei subita in fase istruttoria per mettere alla prova la veridicità delle sue accuse: la ragazza, che all’epoca aveva 18 anni, venne sottoposta alla prova dei “sibilli”, ovvero le furono stretti attorno alle dita dei legacci che vennero poi tirati fino a farla sanguinare. Gli atti sono stati pubblicati e sono davvero interessanti. Alla domanda se fosse pronta a confermare le accuse anche sotto tortura, ella rispose: “Io la verità l’ho detta et sempre lo dirò perché è vero et son qui per confermarlo dove bisogna”.
Il romanzo di Susan Vreeland intitolato La passione di Artemisia e ispirato alla biografia della pittrice, prende le mosse proprio da questo drammatico episodio e prosegue raccontando con un’apprezzabile veridicità la vita di questa donna eccezionale. L’autrice dichiara di essersi liberamente ispirata alle fonti storiche per soffermarsi a immaginare i sentimenti che animarono questa artista, che seppe dare una svolta alla propria vita dopo l’onta subita e potè vantare la stima e l’amicizia di personalità del calibro di Galileo Galilei e di Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del pittore della Cappella Sistina.
Artemisia, tra l’altro, fu la prima donna ad essere ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze e ricevette commissioni da parte del Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici. Tornò poi a Roma, visse a Napoli e si recò anche a Greenwich, dove aiutò l’anziano padre a completare il soffitto affrescato della Queen’s House.
La sua opera più famosa e dipinta in più versioni, la Giuditta che decapita Oloferne, non cessa di stupire per la maestria dell’esecuzione e il vigore della composizione: in molti hanno voluto leggere in quelle pennellate l’orgoglio e il desiderio di vendetta della donna ferita, ma forse è più giusto rendere onore semplicemente alle grandi doti della pittrice, dimenticando le vicende personali che rischiano di oscurare ancora una volta l’arte a favore del pettegolezzo. Artemisia riuscì ad affermarsi grazie al talento e alla tenacia, ma anche perché aveva la forza e l’intelligenza di adattarsi alle circostanze e perché voleva ottenere la fama riservata agli uomini.
In epoca moderna fu riscoperta nel 1916 dallo storico e critico d’arte Roberto Longhi, che per primo dedicò un articolo alla sua opera lodandola come “l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità”.
Nel 1947 Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti e moglie di Longhi, pubblicò un romanzo dedicato alla figura di Artemisia che ebbe un notevole successo. Seguirono altre trasposizioni letterarie sullo stesso tema, la più interessante delle quali è Artemisia di Alexandra Lapierre (la traduzione italiana è stata pubblicata da Mondadori nel 1999). A partire da quel momento la figura della pittrice divenne un simbolo della causa per i diritti delle donne, fino a diventare un vero emblema per le femministe (ad Artemisia Gentileschi sono stati intitolati innumerevoli associazioni, circoli artistici e culturali, centri antiviolenza). Negli ultimi anni, poi, le opere della pittrice sono state oggetto di diverse mostre, l’ultima delle quali si terrà a Roma, Palazzo Braschi, dal 30 novembre 2016 all’8 maggio 2017.
Per chi avesse voglia di approfondire l’analisi delle opere di Artemisia Gentileschi consigliamo la lettura del bel numero monografico di Art e Dossier a essa dedicato e disponibile su MLOL.